Il cinema italiano negli anni settanta ha vissuto una vero e proprio periodo d’oro in cui ha primeggiato su tutti gli altri un genere ben preciso: la commedia italiana.
Sono stati tanti i registi che hanno scelto di cimentarsi in questo genere, alcuni facendolo diventare il proprio cavallo di battaglia, innovandolo e variandolo, fino a farlo divenire la propria forma espressiva di riferimento.
Regia e attori
Una posizione ben precisa in questa giungla di celluloide se la ritagliò il regista Steno, nome d’arte di Stefano Vanzina, che nel 1976 iniziò a lavorare al film “Febbre da cavallo” di cui curò personalmente anche la sceneggiatura.
Il film, in cui hanno recitato Gigi Proietti, Enrico Montesano, Catherine Spaak, Mario Carotenuto, Maria Teresa Albani, Gigi Ballista, mostra le vicende di tre amici che cercano di sbarcare il lunario senza lavorare ricorrendo a espedienti che via via si fanno più comici e stralunati.
Nessuno avrebbe mai pensato, quando uscì nelle sale di trent’anni fa, che Febbre da Cavallo sarebbe divenuto un film cult di più di una generazione.

Critica cinematografica
Il film, infatti, non venne osservato con un occhio di riguardo all’uscita della sale (nonostante il cast di tutto riguardo); solamente con il trascorrere del tempo divenne un’opera cult del cinema italiano.
Il Deus Ex macchina del successo postumo, manco a dirlo, fu il continuo passaggio ‘underground’ presso le piccole emittenti private e locali che, lentamente ma in maniera inesorabile, hanno innalzato sempre più l’attenzione attorno alla pellicola e creando quel fenomeno che rimane vivo tutt’ora.
L’opera al tempo “venne accolta con freddezza” – come ricorda Gigi Proietti – “fino ad arrivare ad essere presentato al 67ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 2010”.
Come non dimenticare una delle prime spietate recensioni che ricevette il film di Steno pubblicata sul quotidiano La Repubblica:” Febbre da cavallo presenta il peggiore dei difetti attribuibili a Steno: non fa ridere […], almeno per la prima ora, e poi soltanto una certa dimestichezza può indurre ad un poco di simpatia per il film”.
Ma il pubblico, lo stesso che continua a ridere delle vicende di Mandrake, indossatore morto di fame, Er Pomata, disoccupato, ricco solo di grandi risorse truffaldine, e Felice, guardamacchine abusivo; ha avuto la vista più lunga e ha assegnato a “Febbre da cavallo” la giusta posizione nel panorama filmico italiano.
Il film è diventato di culto anche grazie ad una delle sue caratteristiche fondamentali: fornisce un ritratto, per quanto edulcorato dalla vena comica dell’opera, di un’Italia un po’ ‘vitellonica’ (ma senza la poesia felliniano de “I vitelloni) alla continua ricerca della chiave di volta capace di spingere i protagonisti lontani dalle fatiche dei padri.
Ed è così che lo spettatore può assistere alla scene di Proietti, mentre interpreta il personaggio di Mandrake, che si fa improbabile promotore di un “un whisky maschio senza raschio” in un tentativo di spot pubblicitario girato nei pressi di Roma.
L’Italia “vitellona” degli anni Settanta
Sullo sfondo, per l’appunto, c’è la Roma di quegli anni che si fa protagonista silenziosa: c’è Piazza Venezia, tra piazza d’Aracoeli e piazza Margana, l’ospedale Fatebenefratelli sull’isola Tiberina, la stazione di Roma Termini (diventata quella Centrale di Napoli) e chiaramente l’ippodromo.
Il finale del film, in cui il terzetto di protagonisti composto da Mardrake, Er Pomata e Gabriella cerca il riscatto dopo una serie di scommesse andate male, si conclude davanti ad un giudice.

Ed è qui che c’è il riscatto dei tre scommettitori dopo un processo strano e sui ‘generis’ in cui si scoprono, senza spoilerare troppo per chi a distanza di trent’anni non avesse ancora visto questa perla, dei retroscena sul giudice obbligatoriamente portano a un lieto fine che la commedia esige.
Nel finale del film, col senno di poi, si può scorgere una sorta di metafora o ‘predizione’ della sorte che avrebbe avuto, nel tempo, l’opera filmica. Snobbata dalla critica, poco premiata dal pubblico dell’epoca, avrebbe avuto un riscatto col tempo fino ad arrivare ai vertici del cinema italiano fatto di risa, folklore, costumi e stereotipi (quelli buoni) con cui si racconta uno specchio di quell’Italia dei Settanta.
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